Grande Orsini nella beffa del “Gioco delle parti”

Il dramma pirandelliano è rivisitato dal giovane regista Roberto Valerio che riesce sfruttando la maestria degli attori a ridare modernità al triangolo amoroso dove stavolta lo sconfitto a morte è proprio chi pensava di aver vinto la partita
Umberto Orsini

Un grandissimo Umberto Orsini. L’ottuagenario attore ancora una volta sorprende. Per resa scenica e interpretativa, e per quella capacità di rinnovarsi, di sperimentarsi, mettendosi nelle mani di registi giovani o di diversa estrazione teatrale (da Pippo Delbono e Andrea De Rosa a Claudio Longhi e Pietro Babina). Tocca ora al quarantenne Roberto Valerio dirigerlo nel Gioco delle parti, testo tra i meno frequentati di Pirandello, e ispirato da una delle Novelle per un anno, che in questo allestimento (del quale Orsini è produttore con la sua Compagnia) acquista una modernità scenica, e di riscrittura, inusuale, privandolo di quella pesantezza e vecchiume che di solito si respira nelle opere del drammaturgo siciliano.

Nella determinante, bellissima, funzionale scena di Maurizio Balò – due pareti di grandi vetrate che avanzano e indietreggiano aprendo e definendo lo spazio principale che è casa e stanza d’ospizio, con luci al neon, riflessi esterni di altre stanze, e un enorme orologio -, il protagonista è un sopravvissuto, uno scampato a un duello mortale: una trappola creatagli dalla moglie e dal suo amante, che avrebbe dovuto eliminare definitivamente lo scomodo marito. Rovesciando la storia, ecco presente l’incomodo fedifrago sul bordo della scena a stazionare su una sedia a rotelle, di spalle al pubblico, per alzarsi al momento giusto e rievocare, ormai vecchio, la sua vicenda, dando corpo ai suoi fantasmi, affrontandoli, parlandogli, ricacciandoli nella memoria.

Un ricordare, sereno, nitido, quasi contemplativo, il suo, in cui ricostruendo o i dialoghi che lo interpellano o, a tratti, semplicemente, usando di una voce fuori campo ricostruisce lo svolgimento della vicenda: una storia di vendetta all’interno del solito triangolo pirandelliano con lui, lei, l’altro giocato sull’eterno contrasto tra forma e vita, tra realtà e apparenza, che rende più evidente la guerra dei sessi e strazia il rapporto di due coniugi impossibili.

Leone Gala è un marito tradito che apparentemente accetta tutto per indifferenza, per atonia morale e sentimentale, per un patologico rifiuto della realtà che si manifesta in due passioni opposte e complementari, quella del cibo e quella del filosofeggiare. E quando la moglie esasperata dal suo eccesso di condiscendenza, lo provoca costringendolo a sfidare a duello un tale che senza volerlo l’ha offesa, Leone accetta anche questo e chiede addirittura all’amante di lei di fargli da padrino. L’ indifferenza nasconde, una trappola mortale. Al momento di battersi, Leone metterà l’amante di fronte alla sua responsabilità, al rispetto della sua “parte”: a lui, come marito, tocca la forma, cioè compiere il gesto della sfida; la sostanza, cioè mettere a repentaglio la propria vita, non può che toccare all’altro.

In quest’indisponente distacco Orsini è magistrale. La sua disperazione immaginaria, il suo senile regredire, e il riaffiorare con lampi di lucidità vicina alla pazzia, sono sapientemente dosati nel passare continuamente e oniricamente dalla stanza domestica dove si materializzano i personaggi, a quella della casa di riposo dove ad assisterlo c’è un giovane infermiere che lui crede il suo vecchio servitore Socrate.

Ad affiancare Orsini nella messinscena di cui sono degni interpreti troviamo Alvia Reale (bravissima nelle sua altere pose da diva e da moglie prima sensuale poi affranta quando infine farà visita al marito nella clinica a rinfacciagli ancora la beffa subita), Michele Di Mauro, Flavio Bonacci, Carlo De Ruggeri, Woody Neri. Da vedere.

Produzione Compagnia Orsini, in collaborazione con Fondazione Teatro della Pergola.  Al teatro Eliseo di Roma, fino al 9/3. A Modena, teatro Storchi, dal 14 al 16/3; a Catania, teatro Verga, dal 18 al 23/3.

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